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A Luigi- silloge breve

   A Luigi   Centoventitre Davanti la finestra del centoventitre c’era la strada dove ogni sera l’aspettava il suo giovane amore die...

sabato 23 maggio 2020

Le scarpe verdi






Stagione inquietante l’autunno, pensava Emily osservando dalla finestra i gialli e i rossi delle foglie avvoltolati da una brezza leggera in cortile.
Sistemò le rose bianche nel vaso, le ultime glamis castle della stagione. Le stesse di quella sera di giugno di dieci anni prima.
Dispose il vaso al centro della tavola e si dispose ad attendere.
Era tutto pronto per ricevere il suo ospite, anche la porta lasciata socchiusa sul lungo ballatoio da dove non passava mai nessuno.
Il tramonto diffondeva barbagli sui cristalli della tavola apparecchiata in un angolo e l’orlo della tovaglia, bianca come le rose, ondeggiava sulle scarpe verdi, assecondando il movimento delle gambe accavallate.
Aveva notato quelle scarpe  in una vetrina del centro e non aveva saputo resistere alla tentazione di provarle, nonostante il prezzo eccessivo. Un piccolo peccato di vanità per iniziare la vacanza, si era detta, ed era entrata nel lussuoso negozio. La commessa l’aveva servita e s’era dileguata con discrezione, lasciandole il tempo di riflettere sul suo acquisto.
- Se non le compra, sarò costretto a regalargliele in cambio di un invito a cena-, aveva detto improvvisamente qualcuno alle sue spalle.
Il timbro di quella voce le era piombato addosso come una mazza da baseball.  Avrebbe potuto riconoscerla fra un milione di altre anche dopo un milione di anni. Lo sguardo le era poi caduto sull’anello che l’uomo portava all’anulare destro e anche l’ultimo dubbio, se mai ne avesse avuto uno residuo, si era dileguato.
Non poteva essere altri che lo stesso uomo di dieci anni prima a Londra.
Si era affrettata a concludere l’acquisto per uscire il prima possibile dal negozio e mettere ordine nella testa in fiamme.
Nell’accompagnarla alla cassa con la scatola in mano, l’uomo aveva galantemente soggiunto: - Per favore, non voli via come la farfalla che ha sul polso. Potrei  rivederla?-
Emily non aveva trovato un filo di voce per rispondere. Il tatuaggio sul polso aveva allungato la carta di credito alla cassiera, la bocca aveva accennato un sorriso che invece era una smorfia e col sacchetto delle scarpe nuove si era precipitata sulla strada brulicante dello shopping di un qualunque sabato pomeriggio in quella zona del centro.
Aveva dovuto fermarsi poco più avanti. Era entrata in un bar, aveva ordinato al barista un tè e a se stessa il tempo per fare ordine mentale.
Ciò che stava accadendo aveva quasi dell’impossibile.
I giardini profumavano di mirra quella sera, c’erano rose ovunque. I due uomini erano nascosti dietro i cespugli profumati. Emily non ne aveva fiutato la presenza, non aveva sentito l’odore della cattiveria nell’aria né aveva udito i respiri perversi che un tiepido vento aveva preferito sospingere altrove. Non aveva nemmeno visto i loro volti coperti dai passamontagna e inutilmente aveva cercato di urlare. La lama era comparsa d’improvviso fra le mani di uno di loro, si era poggiata sulla sua gola e l’aveva convinta al silenzio prima che la voce trovasse lo spazio per uscire dalla bocca.
Aveva ingoiato le urla e il terrore, masticato il dolore, morso le mani che premevano sulle sue labbra finché era riuscita a farlo staccandone brandelli di carne, finché un pugno non l’aveva stordita. Le era rimasto negli occhi l’anello con la pietra blu e l’ariete d’oro in mezzo, che brillava perfidamente sotto un raggio di luna.
L’avevano violentata a turno, la lama del coltello premuta sulla gola, le risa oscene e sommesse. I passanti non s’erano accorti di nulla o avevano affrettato il passo per non doversi accorgere.  Prima di fuggire, uno di loro aveva strappato dal cespuglio vicino una rosa bianca e gliel’aveva lanciata addosso sugli abiti strappati, sulle cosce nude, sui graffi della pelle e le tumefazioni del volto.
Quanto tempo era rimasta al tavolino del bar davanti alla tazza di tè? La bevanda era già fredda quando i battiti del cuore avevano smesso di farsi sentire dallo specchio che aveva di fronte. E’ impossibile, aveva detto alla fine alla sua immagine nello specchio, smetti di farneticare e torna a casa.
La casa era quella di Sally a Porta Genova. Dal balconcino all’ultimo piano, vedeva le piccole opere d’arte dei comignoli traforati, in lontananza il luccichio del Naviglio di sera. La movida sulla strada, i locali gremiti. Difficile prendere sonno prima delle due di notte, a volte anche le tre.
Sally le aveva offerto la sua casa per un mese.
-Hai bisogno di cambiare aria ed io ho bisogno di una segretaria al più presto-, le aveva ripetuto per mesi al telefono.
Aveva resistito fino a quando l’amica non aveva ricevuto quell’invito negli States. Non avrebbe saputo a chi affidare la casa e i suoi fiori, non poteva rifiutarle un piacere, l’aveva implorata. Così si era decisa a partire. E mai avrebbe potuto immaginare che una manciata di giorni e un innocuo paio di scarpe verdi avrebbero trasformato la sua vita in un nuovo incubo.  
Bene, si era detta quando le ultime voci della notte giù nella strada si erano spente, devo capire se è davvero lui.
Tre giorni dopo aveva indossato le sue nuove scarpe verdi ed era tornata in centro. Non era stato difficile farsi notare dallo stesso uomo della boutique. Due sere dopo si raccontavano al Cinquantadue, tra una portata e l’altra  di Gio e salmon roll.
Silvio esibiva il primo brizzolato alle tempie con eleganza e disinvoltura. Il suo aspetto  non rivelava nulla di quell’antico animale che l’aveva aggredita insieme a un altro, una sera di dieci anni prima nella lontanissima Londra.
Ma questo Silvio a Londra c’era stato. Se ne vantò tra un sorso e l’altro di vino di riso, e più ne sorseggiava più diventava malinconico nel rievocare quella lontana vacanza all’estero, ospite di un caro amico, Jack.
-Ah così ti aveva ospitato un amico? Chissà se l’ho mai conosciuto!-
Emily ormai era decisa ad andare fino in fondo.
-Purtroppo non c’è più- aveva risposto lui, cercando di tagliare corto, facendole capire che non aveva voglia di parlarne.
Emily invece ne voleva parlare e come. Si erano riempiti nuovamente i bicchieri. La serata era appena all’inizio.
-Mi dispiace- disse lei- non volevo riaprire una vecchia ferita. Puoi dirmi come è morto? Incidente?
La risposta se l’aspettava ma le era piovuta ugualmente addosso come una valanga d’acqua gelida quando lui aveva risposto seccamente:-AIDS-
Le scarpe verdi si erano conficcate nel pavimento sotto il tavolo e le avevano trapassato il costato. Ormai non aveva più dubbi.
L’uomo che le stava di fronte, questo Silvio elegante e raffinato, proprietario di una delle migliori boutique di Milano, colto, danaroso, affascinante era lo stesso animale che l’aveva violentata a Londra, in una sera di primavera profumata di rose bianche.

E adesso? Che cosa avrebbe fatto adesso che sapeva tutto?
Si era fatta riaccompagnare a casa, non vedeva l’ora di togliersi di dosso le dannate scarpe verdi. Lo sporco di quella sera di dieci anni prima se l’era tolto di dosso già da tempo, ma era riaffiorato.
-Ti accompagno di sopra-, aveva detto lui appena parcheggiata l’auto davanti al portone dello stabile della casa di Sally-
-Scusami, ho mal di testa. Posso invitarti a cena domani sera?-
Si erano salutati con una stretta di mano. La mano le bruciava ancora dalla sera prima.
E adesso era lì, seduta alla tavola apparecchiata, le rose bianche al centro, le scarpe verdi a tormentare l’orlo della tovaglia, la Glock in grembo.
Aveva preso lezioni di tiro. Aveva preso lezioni di tutto dopo quella sera a Londra. Nessuno avrebbe più potuto coglierla impreparata a difendersi.
La rabbia a volte è un farmaco di sopravvivenza. Ma solo fino a quando non arriva una diagnosi maledetta.
Lo aveva scoperto qualche anno dopo la sera della violenza, dopo una serie di esami era arrivato il responso in una sigla, Aids.
La piccola arma adesso era pronta per il suo battesimo.
Silvio sarebbe comparso sul vano della porta, avrebbe dato uno sguardo alla tavola scintillante pregustando una serata romantica, si sarebbe avvicinato alle sue scarpe verdi invitanti. A quel punto Emily gli avrebbe puntato contro l’arma e sarebbe partito il colpo mortale della vendetta.
Poi pensò che il malato di Aids era Jack, non Silvio.  E Jack non esisteva più.
Sentì il profumo di mirra delle rose bianche avvolgerle il cuore e desiderò tornare nella sua casa a Londra. La vendetta non le avrebbe allungato la vita.
Prese la valigia pronta in camera da letto e chiamò un taxi.
-Malpensa- disse all’autista, poggiando le sue scarpe verdi nel vano  posteriore della vettura nell’attimo stesso in cui sull’altro lato della strada veniva parcheggiata un’Aston  rossa.

Il deserto del Gobbo







22-03-3333

La traversata in solitaria del deserto del Gobbo è giunta al suo sesto giorno ( più o meno). 
Di tanto in tanto ho intravisto il lume di qualche pellegrino che condivideva la stessa dimensione ma sono stati pochi i contatti lungo lo stesso percorso. Il deserto è vasto e ogni viandante procede con la propria mappa personale che raramente coincide con quella di qualche altro. 
Stanotte ha piovuto e stamane, quando ho ripreso il cammino, ho avuto il mio bel da fare a scansare i millepiedi richiamati in superficie dall’acqua. Non so se sono riuscita ad evitare tutte le loro estremità… ne hanno così tante! 
Sin dal primo giorno che ho intrapreso il viaggio, ogni notte è venuto a trovarmi un sogno. 
Stanotte ho sognato il mio cane alla guida di una smart grigio topo. Veramente era bicolore in due tonalità di grigio, una più chiara quasi argento e il topo stava di fianco.. Il bello è che parlava pure, il cane non il topo, e mangiava un cono gelato. Con una mano - pardon, zampa –teneva il volante e con l’altra il cono. Io l’ho avvisato che era un’imprudenza e che la ferrea regola del codice stradale l’avrebbe multato salatamente, se non addirittura punito col ritiro della patente ma non è stato a sentirmi. Si è leccato quel cono fino all’ultima colatura di vaniglia e poi ha detto ah che buono ci voleva proprio e proprio sulla parola proprio abbiamo fatto l’incidente col botto contro la staccionata di una fattoria…non vi dico l’urlo delle galline. Per fortuna siamo usciti tutti illesi compresi la smart, cosa che può accadere solo in un sogno.
Ora ci sarebbe da fare l’analisi del sogno, che, come si sa, è sempre una voce dell’inconscio, ma lascerò il compito ad una mia amica che se ne intende, quando e se avrò voglia di raccontarglielo.
Per adesso è meglio concentrarsi sulla marcia di quest’altra giornata finché c’è luce. Fa così in fretta il giorno a morire! Le lancette si spostano sul quadrante senza che uno se ne accorge e i fogli di calendario si ammucchiano nella raccolta differenziata di carta e cartone.
E ci sarebbe il pollo da mettere in forno


18-04-3333

La traversata del deserto sembra non avere mai fine. 
La luna ha compiuto il suo ciclo e stanotte sarà di nuovo spenta come il giorno in cui ho intrapreso il viaggio. Le notti saranno più buie.
Ho notato l’abbassamento di luce delle ultime settimane. Il cielo da queste parti splende sempre di stelle, ognuna sembra voler dire qualcosa ma è solo con la luna piena che tutto sembra più chiaro e persino le stelle sembrano brillare di più.
Non riesco ad abituarmi al buio e al silenzio. A metà del percorso i pellegrini visti in lontananza nei primi giorni si sono fatti più numerosi e vicini. E’ accaduto nelle notti di luna piena ed è stato incoraggiante. 
Sotto la luce della gibbosa calante anche i pellegrini hanno iniziato a decrescere fino a scomparire del tutto come il satellite in cielo in questo novilunio.
Stanotte non ci sarà luna, le stelle brillano parole che la luna non raccoglierà. 
Il silenzio è stato totale sin dalle prime ore dell’alba e il giorno volge al termine. A breve scenderà la notte, una notte di stelle parlanti senza luna in cielo.
Ma ce l’avrà una fine il deserto del Gobbo? 
Sto attraversandolo senza distogliere lo sguardo dall’obiettivo, così da non perdermi niente di tutto ciò che vi si è generato sopra, segnale dopo segnale. La stanchezza inizia a farsi sentire e non ho più avuto la visita di nemmeno un sogno, uno di quelli che valga la pena di ricordare.
L’aridità è stazionaria. Il refrigerio passeggero.
Ci vorrebbe un congelatore. Stasera mi andrebbe una pizza, anche surgelata.


04-05-3333

Ultimi giorni di traversata. Domani sarà plenilunio.
Intravedo all’orizzonte i fasci delle luci artificiali delle affollate metropoli, lampioni di strade percorse da gente in carne e ossa, a volte poca carne e tante ossa…Grattacieli, cemento, mattoni e fumi, vapori, veleni, rumori del mondo reale. 
Sul gobbo ho continuato a leggere parole vere di vite parallele e parole finte di vite vere e nessuna è caduta con rumore: sulla sabbia del deserto tutto ciò che scende non risuona, non riverbera, non contamina. Affonda e sprofonda fra le sabbie mobili del virtuale.
Ho intravisto di sfuggita gli uomini blu. I signori del deserto hanno percorso le loro distanze apparendo e scomparendo tra le dune mai ferme a dorso di navi del deserto dalla gobba smagrita, per una riserva di cibo dell’anima che forse è consumato. La tagelmust sul capo anche per mangiare e bere, sagome, profili, forme che sfidavano l’impalpabilità delle sabbie che tentano i pori, custodi di miti antichi che non possono sottrarsi alle contaminazioni delle entità collettive ai margini.
Il silenzio regna incontaminato tra gli scheletri di una rara vegetazione, il grido sporadico di qualche rapace sorvola la sconfinata distesa ma non plana, lo sconforto regna anche fra gli scorpioni che non percepiscono più vibrazioni a cui dirigersi.
Domani sarà luna piena. Forse ruggirà un leone controluna, forse correrà una gazzella controluce. Forse uno inseguirà l’altra e l’altra lo sfuggirà in questo continuo immobile rincorrersi di verbo nel deserto del gobbo.
Nella distanza, il posto di mezzo. Ci vorrebbe il vento ma non saprei dove metterlo, ho uno zaino di sabbia compressa dove non entra più neanche il fiato di una sinestesia.

I giorni delle ortensie blu



La galleria brulicava dei soliti personaggi strani e meno strani, quel giorno che l’uomo, di un’eleganza d’altri tempi, in completo firmato color cannella, seduto a un tavolo del Biffi, si era messo a urlare il nome di Maria, spogliandosi di ogni eleganza.
Il suo grido aveva fatto il giro dell’Ottagono e i quattro continenti  si erano avvicinati fino a riunirsi nell’antica pangea dove il colore del dolore è uno solo, nero come il buco dello spaziotempo.
Piero, il ragazzo del bar, si era impietrito con lo scontrino del conto in mano e l’affanno dei marmi dopo i bombardamenti nel petto.
Se n’era andata così, senza un saluto, senza una parola. Un attimo prima beveva il suo tè e un attimo dopo non c’era altro che il suo nome urlato alla croce dei bracci.
Da sei mesi, ogni domenica mattina, l’uomo con il completo color cannella arriva da solo allo stesso bar, siede allo stesso tavolo ed ordina la stessa colazione per due. Le ortensie al centro della galleria, lo osservano con occhi di madonna.
-Non si va via così- confida a Piero una mattina che le ortensie sono sparite dietro una folla di turisti più compatta del solito. -Trent’anni non bastano a imparare che i calzini sporchi vanno messi nel cesto della biancheria sporca, e non sotto il letto. Né a capire su quale fianco devi dormire per russare di meno e non svegliarla. Trent’anni non bastano a imparare la lingua che parla la tua donna, i suoi silenzi che non sono spazi vuoti ma suoni, parole come perle di pietà. Che certi no vogliono dire forse, che ci sono carezze che sono un invito ed altre che vogliono restare solo carezze.
E adesso tutto quello spazio vuoto nella casa, negli armadi, nel bagno. Dopo trent’anni non sai più che fartene. Impari così bene a riunire i tuoi abiti nella tua metà del guardaroba, gli oggetti da toilette nella tua metà del pensile da bagno, i tuoi libri nella tua metà di libreria.
Impieghi trent’anni per imparare ad essere solo una metà, e poi lei se ne va.-

Per un ragazzo che serve ai tavoli, contratto a termine rinnovabile, il tempo è questione di riuscire a pagare l’affitto alla fine del mese. Non puoi prenderti il lusso che di una panoramica della clientela ai tavoli, senza inquadrare alcun volto, o colore di pelle, forma di occhi. Ma l’uomo col vestito color cannella è diverso dagli altri. Arriva da solo, ordina per due persone e non consuma nemmeno per uno. Resta fermo due ore, immobile a guardare le ortensie, dalle dieci a mezzogiorno, chiede il conto paga e va via.
La cosa si ripete ogni domenica, ormai da sei mesi. Nonostante l’urgenza dell’efficienza coatta di un contratto a termine indefinito, Piero riesce a ritagliarsi per quell’uomo, così diverso dagli altri, uno sguincio di simpatia, un’obliquità empatica che non glielo fa perdere di vista un istante. La sua presenza domenicale al caffè è una sorta di appuntamento che gli alleggerisce il turno del lavoro festivo.
Anche adesso gli sta riservando l’attenzione alternata del suo occhio sbieco e ne anticipa le mosse sullo scorrere delle lancette dell’orologio da polso.
Tra poco metterà sul tavolo i soliti venti euro, gli farà un cenno con la mano e senza attendere il resto si perderà nella folla di turisti e ortensie, passando sotto l’impalcatura che da lì non si vede ma c’è, l’ha fissata per ore, immerso in un dialogo silenzioso col fantasma precipitato per caso o per volontà.
Ma quella domenica non accade. Mezzogiorno è passato da un pezzo, la lancetta dei minuti ha già percorso un quarto della solita circonferenza senza inizio né fine, e l’uomo è ancora seduto. Fissa le ortensie e sorride sotto il leone dell’Africa. Finalmente sorride.
Deve aver visto Maria, pensa d’istinto Piero. Anzi no, non lo pensa, la vede con gli stessi occhi sgranati dell’uomo cannella.
E’ la donna alta, magra, leggera sotto una cornice di capelli bianchi lievemente arruffati sulla fronte. Avanza lentamente, col suo portamento elegante, sorvolando passanti di ogni nazionalità e si ferma al suo tavolo. L’uomo si alza, le bacia la mano, non osa nemmeno sfiorarla, non sa se è vera ma sa perché è tornata.
Non ha occhi che per lei, lo si intuisce da come drizza il capo, dal sussulto che ha nel petto, dal lampo nello sguardo che non sfugge al ragazzo del bar. La galleria gronda di turisti e la domenica lenta cammina in discesa.
Piero si avvicina all'uomo, vorrebbe toccarlo, ma a un ragazzo che serve ai tavoli non è permesso
- Va tutto bene, signore? Signore! Ma come, si va via così?-

venerdì 22 maggio 2020

Serenopoli è in pericolo (Fiaba per adulti)






La vita a Serenopoli scorreva tranquilla e serena, mentre lì fuori, sulla strada della città di Corrievai, il traffico scorreva sempre più caotico e la gente andava sempre più di fretta.
Nessuno della città trovava mai il tempo di far visita agli abitanti del bosco.
Tutti erano presi dai loro affari. Alcuni pensavano a come fare più soldi oppure a dove andare in vacanza. Altri a come trovare un lavoro e far mangiare i loro figli. Ma tutti indistintamente avevano altro a cui pensare.
I noccioli guardavano quello che accadeva nella vicina città, ascoltavano i discorsi dei passanti e riferivano agli abitanti di Serenopoli. E gli abitanti di Serenopoli ascoltando i loro resoconti rabbrividivano al pensiero di quanto dovessero essere stressati gli abitanti di Corrievai.
Un bel giorno un nocciolo che aveva un udito più fine degli altri colse un brano di conversazione che lo mise in allarme.
Due abitanti di Corrievai si erano fermati vicino al fontanile che scorreva lì vicino, avevano tirato fuori dai taschini due grossi sigari, li avevano accesi e avevano aspirato a lungo prima di mettersi a parlottare tra loro sotto voce
-Ecco, lo vedi quanto spazio inutilizzato? – disse il primo ammiccando con la testa nella direzione del bosco e scagliando addosso al povero nocciolo uno sbuffo di fumo di sigaro che gli tolse il respiro per diversi minuti.
-E’ un vero spreco- rispose il secondo uomo, lasciando cader giù la cenere del suo sigaro su un bel fiore giallo di tarassaco che subito si afflosciò.
-Infatti- riprese a dire il primo- mi dici a che servono tutti questi noccioli rachitici?
- Case.  Ecco cosa faremo. Residenze di lusso, mio caro. Soldi a volontà-
Continuarono a parlare Intanto che camminavano e il nocciolo non riuscì a sentire altro. Ma quel che aveva udito era stato sufficiente per comprendere che il villaggio di Serenopoli stava correndo un grosso pericolo.
Immediatamente chiamò i noccioli vicino e riferì quello che aveva sentito. E di albero in albero la notizia si sparse per l’intero villaggio, sicché in breve non c’era un solo nocciolo che non ne fosse al corrente e che non si fosse messo in allarme.
Oromerlina, al ritorno dalla spesa, si accorse subito che qualcosa non andava. I noccioli sembravano avere un’aria insolitamente triste, coi loro rami tutti all’ingiù e le foglioline all’ingiù…come se avessero voglia di piangere. Che cosa poteva essere successo?
Ripose i suoi acquisti nella dispensa e corse subito da Noccinocciolino, il più giovane dei noccioli che in genere era anche il più chiacchierone di tutti.
Noccinocciolino era così triste da non riuscire a parlare. Appena iniziava a raccontare,  si metteva a piangere e dalla sua bocca  invece delle parole uscivano solo singhiozzi.
- Calmati, Noccinocciolino,- continuava a ripetere Oromerlina,- toh, prendi questa piuma del mio ombrellino, soffiati il naso e dimmi con calma che cosa ti angustia. Se piangi e parli contemporaneamente, io non riesco a capire niente di quello che dici-
Così  Noccinocciolino si soffiò per benino il naso, smise di piangere e raccontò per filo e per segno quello che era accaduto.
Quando ebbe finito di raccontare, Oromerlina era sbiancata del tutto, cosa che accade rarissimamente ad una merla molto molto grigia, che sbianca solo per eventi eccezionalissimi, anzi solo in due precise occasioni, o quando cade molta neve che le si posa addosso o nell’imminenza di una grave catastrofe, come in quel caso.
Piano piano Oromerlina si riprese dalla brutta notizia, si diede una rapida ravviata alle piume davanti e dietro e sistemò anche quelle che orlavano il suo ombrellino che non lasciava mai.
Cercò di rasserenare Noccinocciolino, anche se era molto scoraggiata lei stessa. Aveva capito che la situazione era davvero grave. Quando gli uomini di Corrievai fiutavano un affare di denaro era molto difficile far cambiare loro idea.
Oromerlina pensò che non c’era un minuto da perdere.
Tornò a casa e indossò il vestito delle occasioni importanti, un bel tailleur grigio più scuro del solito. Decise che la circostanza richiedeva anche il cappello delle grandi battaglie e così tirò giù dalla soffitta il cappello a forma di gabbia che si era fatta confezionare per quando doveva scendere in piazza manifestare contro l’abitudiine di molti umani di tenere in gabbia gli uccellini.
Quel cappello infatti era sì a forma di gabbia, ma con la porta spalancata, per significare il diritto alla libertà di tutti gli uccellini del mondo. Se Dio avesse voluto che gli uccelli stessero in gabbia non avrebbe dato loro le ali per volare alti nel cielo.
Quella battaglia ancora non era vinta del tutto, ma adesso c’era un’altra battaglia ben più urgente da combattere, quella contro la cementificazione del bosco, che voleva dire la scomparsa di Serenopoli, la fine per tutti.
Bisognava scendere in piazza subito, mettere in piedi una controffensiva, lottare con ogni arma e quel cappello le infondeva molta fiducia in se stessa.
In ultimo afferrò il suo ombrellino che non lasciava mai e volò a rotta di collo verso l’abitazione di Geremiao.
Nonostante la cautela usata da Oromerlina nel raccontare gli ultimi avvenimenti, il grande capo del villaggio, dopo averla ascoltata, ebbe un piccolo svenimento.
Era molto anziano e il suo cuore non era più quello di un tempo. Ma era pur sempre un capo, e in quanto tale aveva chiaro il senso della sua responsabilità. Un capo non si deve mai far prendere dallo scoraggiamento, deve sempre reagire, pensare al bene della sua comunità e infondere coraggio a tutti.
Appena si riprese, dopo aver bevuto le gocce che gli aveva preparato Oromerlina, Geremiao cominciò a pensare al da farsi.
Per prima cosa pregò Oromerlina di convocare il solito Granconsiglio generale, quindi iniziò a prepararsi per andare alla Gran riunione.
Indossò la marsina delle grandi cerimonie che gli era stata confezionata nella sartoria di  Ragnino&Ragnetto, i due migliori designer d’alta moda di tutta Serenopoli, che avevano la loro maison in un appartamento all’attico del sinforicarpo dove viveva anche Geremiao.
Prima che  Oromerlina andasse via per convocare la riunione, si era fatto fare da lei un nodo alla cravatta che gli avevano regalato all’ultimo compleanno le sue amiche Lilì e Lulù, due deliziose farfalline specializzate nella fabbricazione di coloratissimi capi d’abbigliamento. Le loro confezioni erano fatte con le ali delle farfalle che non potevano più volare, perché ormai morte.
Lilì e Lulù avevano pensato che, visto che la vita delle farfalline è molto breve, avrebbero potuto fare qualcosa per prolungarla un po’ di più, utilizzando le ali che a loro non servivano più per fare qualcosa che sarebbe servito agli altri.
Prima di uscire anche Geremiaio, come Oromerlina,  indossò un  cappello importante. Si trattava di un cilindro ricavato dal fusto di un nocciolo abbattuto da un fulmine alcuni anni prima, un amico a cui era stato molto legato. Portando in testa quel cappello era come se avesse ancora l’amico al suo fianco.
Quando fu pronto, uscì in giardino, si fermò a raccogliere un papavero e  se lo mise all’occhiello. Sembrava un cuore sull’occhiello della marsina, un cuore rosso e sanguinante di dolore per la sorte  che si stava abbattendo su Serenopoli.
Il  luogo convenuto per la Gran riunione era il grande spazio libero che si trovava davanti ai recinti di Ponygiògiò e Biancamèmè.

Api, farfalle, passerotti e ogni altra specie di volatili erano già presenti sul posto, quando Geremiao arrivò e sedette al suo posto al tavolo della presidenza, un esemplare antichissimo di viburno. Di fianco a lui sedette Oromerlina che per l’occasione gli avrebbe fatto da segretaria.

-Serenopoli è in grave pericolo- esordì con tono solenne, dopo i saluti di rito.
- Le maestranze di Corrievai- proseguì-  hanno deciso di abbattere tutti i noccioli del bosco per una nuova speculazione edilizia.
Presto resteremo tutti senza una casa e i noccioli moriranno.
Dobbiamo protestare per impedire che si compia questo misfatto.
Stasera vi ho convocato tutti per escogitare un piano di battaglia contro questa catastrofe imminente.
Se qualcuno di voi ha un’idea, questo è il momento di parlare per passare all’azione-.
Tutti ammutolirono e si immobilizzarono per molti minuti, immersi nei loro pensieri e nel dispiacere per quanto avevano appena appreso.
Lialepre e Conigliogliò tremavano per la paura. Che cosa c’era da fare? pensavano. Nulla, proprio nulla se non scappare al più presto.
Geremiao dall’alto della sua sedia di capo del gran consiglio si accorse del loro tremore e tuonò:
 -Non siate paurosi, non scoraggiatevi mai alle prime difficoltà. Dobbiamo batterci se vogliamo che non sia commessa un’ingiustizia verso i più deboli.
Che cosa potrebbero fare i nostri amici noccioli davanti alle ruspe senza il nostro aiuto?
Niente, sarebbero destinati a  morire.
Vogliamo sentirci responsabili della loro fine? Vogliamo veder abbattere le nostre case senza muovere un dito? Vogliamo rinunciare al nostro villaggio, Serenopoli, senza  combattere? 
E’ ora di reagire non di fuggire. C’è bisogno di tutto il nostro coraggio.
Uniamo le nostre forze.
Uniti, possiamo farcela.-
- E già, ma come? – miagolarono i gatti sempre seduti in prima fila.
Ponygiògiò, da dentro il suo recinto, iniziò a scalpitare facendo sollevare un gran polverone. Scalpita scalpita alla fine parlò.
-Io un’idea ce l’avrei- disse in un nitrito fievole fievole, perché era un po’ timido, infatti alle riunioni del Granconsiglio non parlava mai, ma si limitava a dare qualche zoccolata al terreno come segno della sua partecipazione ai discorsi.
-Oh, bene, sentiamo allora- lo invitò Geremiao.
-Ecco- riprese a dire timidamente- non so se è una buona idea, ma penso che per salvare i noccioli abbiamo bisogno dei bambini di Corrievai-
-I bambini? Che cosa possono fare dei bambini contro le ruspe? – cominciarono a dire in coro scoiattoli e lucertoline, dandosi delle gran gomitate tra loro come a voler dire:  è uno sciocco, non statelo a sentire, ci fa solo perdere tempo…
-Zzz-zzz-zzzitti – disse Apepina- fatelo parlare. Vai avanti Ponygiogiò-
-Sì, sì, vai avanti- incalzarono i gatti in coro sollevando la coda in segno di approvazione.
-Quello che mi è venuto in mente è uno sciopero- disse allora Ponygiogiò, incoraggiato dalla maggioranza dell’assemblea.
-Dunque- continuò- dovete sapere che ogni mattina, prima dell’inizio della scuola, i bambini passano accanto al mio recinto per venirmi a salutare. Alcuni vengono dopo la scuola. Altri vengono durante il fine settimana accompagnati dai loro genitori. Vengono qui, io esco dalla stalla e faccio un giro intorno al recinto, mi faccio accarezzare la criniera e mangio l’erba che mi porgono con le loro mani…Dovreste vedere come sono contenti quando vengono qui…Immaginate che cosa proverebbero se non mi vedessero più?-
-Mee-meee-mee ha ragione- dissero in coro le caprette capeggiate da Biancamemè. – I bambini vengono a trovare anche noi e alcuni, quando non ci vedono, si mettono a piangere, così dobbiamo uscire dalla stalla anche quando non ne abbiamo voglia, per farli smettere…-
-Per mille lische di sardine affumicate!- esclamarono all’unisono i gatti.-Abbiamo capito dove vuole arrivare Ponygiogiò.-
-Zzz-zzz-zzzicuro- sciamò l’Apepina spostandosi da una malva a un fiordaliso. –Ponygiogiò  è un genio.-
Poi tutti iniziarono a parlare contemporaneamente e non si capì più nulla.
-Silenzio-, disse con autorità la segretaria Oromerlina- Vi prego di parlare uno alla volta altrimenti non si capisce niente-.
Ma ormai nessuno stava ad ascoltare e tutti si parlavano uno sull’altro. Per ripristinare l’ordine, la segretaria fu costretta a battere  più volte il suo ombrellino sul piano della siepe di viburno  e molte delle piume che lo adornavano volarono via.
Ma l’ordine  fu ripristinato.
Geremiao riprese la parola.
-Bravo Ponygiogiò, hai avuto un’idea magnifica. Da domani entreremo tutti in sciopero. Ecco come faremo.
Le caprette e i pony resteranno all’interno delle stalle. Non dovranno farsi vedere per nessuna ragione al mondo. Le stalle dovranno sembrare deserte e abbandonate, almeno per qualche giorno. So che la cosa comporterà dei sacrifici, ma è necessario. Chi entra in sciopero sa di dover affrontare dei brutti momenti, prenderete meno aria, mangerete meno erba fresca ma il fine che ci proponiamo merita qualche piccola sofferenza.
Le api e le farfalle dovranno cambiare campo per qualche tempo. In questo modo nel nostro bosco non ci sarà più l’impollinazione da pianta a pianta e in breve non crescerà più un solo fiore ma solo erbacce su erbacce. Lo so, è una prospettiva che stringe il cuore, ma bisogna far così per la salvezza di Serenopoli.
Tutti e dico tutti gli abitanti di questo bosco dovranno cessare le loro attività.
Niente canti di fringuelli, di merli e di qualsivoglia altro tipo di uccelli. Niente cacce di vermi, di zanzare, di mosche. I gatti smettano di dar la caccia ai ratti notturni.
Dobbiamo fare in modo che l’equilibrio della natura si spezzi, almeno per qualche tempo. E’ l’unico modo per far comprendere ai cittadini di Corrievai a quale grave danno andrebbero incontro se questo bosco dovesse sparire.
Anche i noccioli dovranno fingere di ammalarsi. Non sarà difficile con l’angoscia che stanno provando per questa brutta faccenda del piano edilizio.
Tutti i bravi cittadini di Corrievai saranno costretti a fermarsi per un po’ quando i loro bambini inizieranno a chiedere dove sono finiti i cavallini, le caprette e i fiori, quando l’aria diventerà irrespirabile perché i noccioli non assorbiranno più l’anidride carbonica e non rilasceranno più ossigeno, quando i vermi, le zanzare, le mosche, i topi invaderanno la città perché non ci saranno più gli uccellini e tutti gli altri animali del bosco a far pulizia…-
Geremiao era molto provato quando smise di parlare, ma anche soddisfatto della decisione che avevano preso.
Tutti gli animaletti applaudirono a lungo il suo discorso, poi si strinsero le mani fra loro e si abbracciarono con le lacrime agli occhi pensando ai giorni di sciopero che li attendevano.
Quando la riunione si sciolse, tornarono alle loro case con la tristezza nel cuore per la prima volta nella loro vita ma anche con una piccola speranza. Se avessero fatto come deciso nel gran consiglio, forse ci sarebbe stata una possibilità di sopravvivenza per Serenopoli e tutti i suoi abitanti.
Il giorno dopo, tutti si comportarono come era stato deciso.
Il bosco si svegliò nel silenzio più completo e in un’immobilità assoluta.
E così il giorno dopo, il giorno dopo ancora e ancora per molti giorni.
Quando i bambini passarono davanti ai recinti, chiamarono a lungo Ponygigiò e Biancamemè, ma i recinti rimasero vuoti.
Tutt’intorno non si sentiva un volo, non si vedeva un’ape, uno scoiattolo una lucertola. Anche i noccioli piegarono i rami, le foglie si afflosciarono e persero colore. Il bosco sembrava improvvisamente morto. Che stava succedendo?
I bambini volevano sapere dove erano finiti i pony e le caprette e tempestarono di domande i genitori e gli insegnanti. Così alla fine molti abitanti di Corrievai si dovettero fermare per ragionare su quello che stava accadendo nei pressi della loro città.
Il bosco era in pericolo. La nuova giunta aveva intenzione di cambiare il piano regolatore e di far sorgere al posto del bosco di noccioli una nuova colata di cemento. L’aria sarebbe divenuta ancora più irrespirabile. I loro bambini non avrebbero avuto più nessuno spazio verde in cui correre e giocare e in cui vedere i loro animali del cuore.
E poi tutto quel silenzio del mattino…dov’erano finiti gli uccelli?
Improvvisamente si resero conto che anche se non avevano il tempo di fermarsi ad ascoltare il loro canto, anche se a volte non si rendevano conto di sentirlo perché troppo impegnati a fare altro, dentro di loro quel canto riusciva ad arrivare lo stesso e li accompagnava nel disbrigo delle loro faccende. Non si sarebbe spiegato altrimenti come mai ne notassero l’assenza.
E allora i cittadini di Corrievai presero un’importante decisione.
La domenica successiva sarebbero andati in massa a Serenopoli con i loro bambini, avrebbero fatto lì un picnic stendendo le loro tovaglie colorate e avrebbero giocato con i loro figli. Il giorno dopo si sarebbero presentati in Comune tutti insieme a presentare una petizione affinché il grande scempio non accadesse. E se non fosse bastato un giorno solo, sarebbero andati ancora e poi ancora e ancora, avrebbero occupato la stanza del sindaco giorno e notte se fosse stato necessario, avrebbero inviato lettere di protesta ovunque, avrebbero occupato il bosco  per non far entrare le ruspe…
E così fecero. E alla fine il sindaco si dovette dimettere e il piano regolatore non fu più cambiato.
Serenopoli ricominciò a vivere.
Tornarono tutti i suoi abitanti e Oromerlina si fece fare un ombrellino nuovo dalle sue comari merle.
Adesso ogni mattina continua a dare la sveglia a tutti gli animali del bosco, comprese Lialepre e Conigliogliò, che lavorano di notte e di giorno vorrebbero dormire.
Geremiao diventa ogni giorno più vecchio ma è molto curato dai suoi concittadini.
Apepina gli porta ogni mattina un buon bicchiere di miele che gli dà forza e Oromerlina non lo perde di vista un secondo, pronta a somministragli le sue spremute di petali di ogni colore.
E’ancora un bel gattone panciuto e tutto fa pensare che sarà il capo del villaggio di Serenopoli ancora per molti anni.


mercoledì 20 maggio 2020

SILLOGE "AZZURRA"





Sogni di muschio

Dolce di te si scioglie fra le labbra
la violalavanda del risveglio
cresciuta sulle pietre dell’aurora

tu che mi fosti acqua di rosa damascena
aspersa sulle dune dell’albore
manchi alla conca cava della sera
e questo mio cuscino sa di fieno

entrano dalle porte della notte
sogni di muschio e posano sui fianchi



Stasera il cielo

Stasera il cielo ha gli occhi
dei gatti acciambellati sopra i tetti:
fori nel piombo da cui cola il tempo
di baci acciambellati sopra il collo

Siedono sulle scale alla marina
la regina ed il re, bianchi. Lasciarono
partire i loro sogni a piedi nudi
senza accompagnarli al porto

a volte un effluvio di salsedine
traduce sotto costa un’eco
come di fusa

e non basta un bicchiere
di sonno a farla evaporare.


Batuffoli

La luna s’è seduta su batuffoli di nuvole 
ed io trattengo quattro passi di stupore
per poterti amare ancora, Amore,
con la stessa passione delle finestre per la luce
con l’ardore delle tegole per un apostrofo d’estate

le stanze hanno rapito disegni di buio
e c’è la tenerezza di un albero di gelsi
sul rovescio di un ombrello



La strada

Ora che sai la strada
vieni a trovarmi più spesso
nella mia seconda casa
dove nessuna porta si apre a comando
dammi le tue ginocchia per appoggiarvi il capo
carezzami i capelli e dopo baciami

non diremo a nessuno ch’era un sogno

-quando il giorno verrà a svelare il segreto
racconteremo a tutti che il giorno è bugiardo-



Sempreverde

Sei l’umido silenzio
del sempreverde in inverno
che stilla le sue gocciole
sugli aghi dell’assenza

da quando venni a prendere
il miele dei tuoi occhi
è deserta ogni arnia
alla mia vista

continuo ad inciampare
nel ricordo
di polpa di ciliegia
fresca e dolce
sulle mie labbra
secche di parole



Il saluto

Ti cercò il sasso fermo al bagnasciuga
lo stesso sasso dell’ultima estate
ma scendendo le scale
contro lo specchio del molo vecchio
il tuo braccio non c’era

inutilmente ho cercato
le stesse conchiglie
eppure erano uguali le crespe d’arancio 
ed il respiro salso

nel lasciare il tuo saluto a un gabbiano
non mi tornò indietro neanche un sorriso



Gli anni delle spine

Si sfilacciano gli anni delle spine
e, sai? io le rammendo,

ora rammendo spine e non mi pungo

Le foglie morte, le briciole di danze
sono lamine d’oro arrotolate

e se pure non so perché respiro
respiro fiori e cielo
del bozzolo nel quale fummo avvolti.

I giorni si congiungono sottili
come ostie saldate sul palato

Il cane giallo(Cronache d'Irascal)






Una grande visione è necessaria.
L'uomo che la possiede deve
seguirla,come l'aquila segue il blu più profondo del cielo.
Tashunka Witko (Cavallo Pazzo)


La ferrovia era una lunga ferita sulla pancia della terra, fra gli agrumeti e le vigne. Le piante allungavano foglie e frutti fin sopra le rotaie e qualche volta un grappolo o un limone finivano per schiantarsi contro un vagone prima di raggiungere l’età matura.


In quel tratto, il binario unico correva dritto per diversi chilometri e le rotaie si congiungevano in lontananza in entrambe le direzioni  in due puntini neri  sulla linea dell’orizzonte schizzata di verde e d’azzurro.

Nel mezzo di questo tratto le palette bianche e rosse del passaggio a livello segnavano il tempo dei treni
e quello dei ragazzi d’Irascal.

Era un tempo lento per i convogli ferroviari  e perciò ogni  loro passaggio era lungo e cadenzato da un rumore ferroso che accompagnava lo sboccio dei gelsomini come la ninna nanna della mamma il sonno dei bambini.

Spesso Barone sceglieva la via del treno per i suoi tragitti di clochard fra un punto e l’altro della prateria. Dove andasse, da dove venisse non lo sapevo.

Era come quei treni che portavano merci e persone da un dove a un quando, da un quando a un dove,  il punto interrogativo del nostro cammino verso il  futuro.

In questi tragitti di ritorno da un dove a un quando, si metteva al centro del binario e  procedeva con la lentezza  del tempo d’irascal,  lento e flessuoso come se ancheggiasse, ora venendo  in direzione del passaggio a livello, ora allontanandosene.

A tratti si accosciava sulle traverse  e  frugava  con le narici  pieghe d’aria rarefatta e incandescente attraversata dall’ odore succoso dei frutti che gli cingeva i fianchi e da   quello viscido del catrame che gli si scioglieva sulle zampe.

Fiutava  il sospetto  degli insetti sciamanti e l’afrore degli esseri umani che talora si trovavano anch’essi a percorrere il suo stesso tragitto in compagnia di qualche arnese da lavoro.

Fiutava a lungo e con calma, profondamente. L’odore degli essere umani doveva essere più   complicato da decifrare di quello del grano o di una lucertola. A volte può essere  buono e avvolgente come una salsiccia appena arrostita, altre volte  insidioso come quello della corrente d’un canalone in piena.

Il cane approfittava delle sue soste anche  per ripulire l’aria di quel po’ po’ di mosche e calabroni che si davano  appuntamento intorno al suo naso e deglutiva spesso soddisfatto. Non sempre gli riusciva di  consumare un pasto decente. Lucertole e mosche per giorni e giorni,  su quel binario non v’era altro per chilometri e chilometri. Qualcosa arrivava anche dai finestrini dei treni di tanto in tanto, ma difficilmente si trattava di roba commestibile, bottiglie che si frantumavano in mille cocci, lattine roventi, bicchieri di plastica, mucchi di carta unta e maleodorante persino per il suo naso.
Nonostante tutto l’azzurro in possesso di quel dove, il tempo d’Irascal ebbe giorni neri che non si lasciavano tingere in nessun altro colore.

Ognuno aveva i suoi, Barone quelli dell’attesa che i suoi padroni arrivassero ad aprire la casa per le vacanze estive, i contadini quelli dei raccolti magri,   mia madre quelli del richiamo del mare, del fiume, del buio e noi ragazzi quelli delle insofferenze, delle irrequietezze, spesso della fretta di toglierci di dosso tutto quell’azzurro che pioveva e pioveva ma  a volte non era in grado di bagnarci come avrebbe dovuto, come avremmo voluto.

Quel giorno che decisi di andare via non pensai agli altri. Non avevo pensato neanche a me, ma solo ad andare via da tutto quell’azzurro bugiardo che era il tempo d’irascal.

Scelsi la via del treno come Barone. Lui più avanti io qualche passo indietro, lui al centro del binario io di fianco  lungo la scarpata, entrambi via dalle palette bianche e rosse del passaggio a livello in direzione dei  due puntini neri dell’orizzonte schizzato di colore.

Dove stava andando il cane? A che cosa stava pensando?

Come fa l’uomo a sapere cosa c’è dentro la testa di un cane se a volte non sa nemmeno cosa c’è dentro la sua stessa testa?

I grilli che cantavano a perdifiato non stavano pensando a nulla.

D’un tratto la campagna aveva smesso di cantare. I limoni tremarono,  i grilli si acquattarono nelle fessure, il sole si rannicchiò dietro una nuvola e il fischio del treno lacerò l’aria.


Il convoglio divorò con la furia di una valanga metri e metri di rotaie, spostò un’enorme massa d’aria che mi schiacciò  sul fondo della scarpata e s’avventò sul cane, che ancora camminava indolente e assorto al centro del binario.


Avevo riaperto  gli occhi sui respingenti dell’ultimo vagone che parve sghignazzare alle rotaie prima di divenire un segmento, un punto, un nulla contro l’azzurro.
Barone se ne stava  disteso immobile al centro del binario. Avrei voluto urlare ma non mi riusciva. Gli occhi non si staccavano dalla macchia gialla che aderiva alle pietre come una pelle vuota.


Tutto era accaduto nel giro di pochi istanti, pietrificando ogni cosa.


Il treno ululò ancora una volta dopo che era divenuto un nulla e il mondo riprese vita: i grilli uscirono dalle fessure riprendendo a cantare, il sole si scrollò di dosso la sua nuvola, le formiche ripresero a camminare sulla mia gonna a fiori e Barone si ricompose sulle traverse nella forma di un cane.

Si stiracchiò sulle zampe davanti, poi su quelle dietro, scrollò la testa come a scacciarne via il terribile tuono che v’era appena entrato dentro e l’aria luccicò di pelo giallo come vi fosse esploso in mezzo un grumo d’oro. Infine saltò fuori dalle rotaie, atterrando sullo stesso fondo della scarpata in cui procedevo anch’io, si volse un istante a fissarmi negli occhi e a me era parso che  dicesse: “Non poteva finire così presto, c’è ancora tanta di quella strada da fare!”.


Le palette bianche e rosse del passaggio a livello già lontano erano di nuovo stagliate tra il verde e l’azzurro, in piedi.


In piedi come i giorni dei ragazzi d’Irascal. comunque andassero i giorni.

Silenzi ( Momenti di me)





Te ne sei andato via da troppo tempo, e la matita della mia memoria non sa più disegnare i tratti del tuo viso, riesce solamente a tracciare la sagoma indistinta di abiti troppo larghi sul corpo troppo magro, e ancora sembra tu debba cader giù da quelle lunghe, inconsistenti gambe.
Ma quando vieni nei sogni, allora il volto tuo davanti al mio è nitidamente scolpito, coi lunghi solchi che percorrono le guance sprofondando sotto il cespuglio dei baffi neri come la notte, e gli occhi galleggianti dentro le bolle d’acqua di quella malattia per la quale quasi non vedevi più quando ci lasciasti. Sei lì, col tuo abito blu, sempre blu, e la camicia bianca, sempre bianca, sgualcito come loro sotto il berretto grigio, la coppola della tua, della mia terra.
Mi sono domandata perché ti abbia chiamato tante volte nelle mie fughe di sonno, o se invece non sia tu a volermi incontrare, per regalare un altro po’ di te alla figlia della tua figlia prediletta, la nipote che ti assomigliava di più, con la sua testa grande, il naso largo, la pelle colore delle olive della tua campagna... Cerco allora il primo ricordo di te, ma le immagini si accavallano senza un ordine temporale, sospinte da ventate di odori, sapori, colori  lontani e disordinati.
Ritrovo la tua mano che circonda la mia , in giro per le strade del paese, e dentro l’osteria dove ti fermi a bere un bicchiere di vino con gli amici, raccomandandomi di  non dirlo alla nonna. Lì, sulle tue ginocchia, sgranocchio caramelle di limone e gioco a scopa con voi, dentro l’odor di vino e il puzzo delle sigarette che arrotolo insieme a te.
Risento l’odore di quello  sgabuzzino della stazione, dove rimani a fare non so cosa  con pacchi, ceralacca, timbri e spaghi, ed io fuori la porta ad intrecciare aghi di pino in collane e corone che ti regalo cingendotene il collo e la testa, per farti diventare re.
E ancora con te volo fra i mandorli in fiore della tua Agrigento, in quelle primavere che si andava, noi due soli , sul treno sbuffante un fumo nero, che mi riempiva bocca e naso ed occhi mentre, affacciata al finestrino, le tue braccia intorno alla mia vita, accarezzavo campi senza erba e greggi senza pastori. E lì, in quel fazzoletto di terra che ti era rimasto, fra le mura cadenti di quella casa abbandonata ormai da tempo immemorabile, raccoglievamo more dai cespugli e frutti acerbi, tu forse un poco di memorie, che ancora io non sapevo.
Per tanto tempo ci sei stato tu. Dietro il portone dell’asilo e nelle feste in piazza, dove andavamo portandoci dietro le sedie, tu la tua, grande, io la mia, piccolina, per ascoltare la banda che suonava, gli uomini che parlavano da un palco, ed io mi addormentavo, la testa sulle tue ginocchia. E c’eri tu, ogni mattina, alla stazione ad aspettarmi per accompagnarmi a scuola, passando prima da casa tua per fare colazione con la frittata di uova appena raccolte dal pollaio e il gelato dentro il pane caldo.
Poi la nostra amicizia finì, e non per colpa tua. Vennero altri amici alla stazione ad aspettarmi, e la frittata, il pane caldo col gelato non mi piacquero più. Tu lo capisti quella volta che finsi di non vederti, lasciandoti solo alla stazione dov’eri venuto ad aspettarmi come sempre. E da quel giorno non sei più venuto. E nemmeno sentii più il tuo fischio chiamarmi sul portone della scuola, all’ora di uscita, né più mi portasti a volare fra i mandorli in fiore della tua Agrigento.
Sei rimasto ad aspettare che tra un giro con gli  amici ed una festa io entrassi ancora  un poco tra le mura di quella casa dalla quale ormai uscivi sempre più di rado. E sempre più di rado io vi entravo.
Quando mi dissero che te ne eri andato, ancora non capivo cosa volesse dire veramente morire. Sei stato il mio primo incontro con la morte,  aveva il tuo volto. Forse è anche per questo che torni così spesso nei miei sogni. Io apro la porta e tu sei lì, sgualcito dentro l’abito blu e la camicia bianca, sotto il berretto grigio  a dirmi che sei tornato, che non sei morto, che è stato tutto un terribile errore.
E nel sogno, l’unica cosa di te che non so se sia quella vera è la voce. Perché la tua voce, nonno, io non la ricordo. Parlavi così poco, eppure mi dicevi tante cose coi tuoi lunghi silenzi.
E ancora mi piace ascoltarli.