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mercoledì 20 maggio 2020

Il cane giallo(Cronache d'Irascal)






Una grande visione è necessaria.
L'uomo che la possiede deve
seguirla,come l'aquila segue il blu più profondo del cielo.
Tashunka Witko (Cavallo Pazzo)


La ferrovia era una lunga ferita sulla pancia della terra, fra gli agrumeti e le vigne. Le piante allungavano foglie e frutti fin sopra le rotaie e qualche volta un grappolo o un limone finivano per schiantarsi contro un vagone prima di raggiungere l’età matura.


In quel tratto, il binario unico correva dritto per diversi chilometri e le rotaie si congiungevano in lontananza in entrambe le direzioni  in due puntini neri  sulla linea dell’orizzonte schizzata di verde e d’azzurro.

Nel mezzo di questo tratto le palette bianche e rosse del passaggio a livello segnavano il tempo dei treni
e quello dei ragazzi d’Irascal.

Era un tempo lento per i convogli ferroviari  e perciò ogni  loro passaggio era lungo e cadenzato da un rumore ferroso che accompagnava lo sboccio dei gelsomini come la ninna nanna della mamma il sonno dei bambini.

Spesso Barone sceglieva la via del treno per i suoi tragitti di clochard fra un punto e l’altro della prateria. Dove andasse, da dove venisse non lo sapevo.

Era come quei treni che portavano merci e persone da un dove a un quando, da un quando a un dove,  il punto interrogativo del nostro cammino verso il  futuro.

In questi tragitti di ritorno da un dove a un quando, si metteva al centro del binario e  procedeva con la lentezza  del tempo d’irascal,  lento e flessuoso come se ancheggiasse, ora venendo  in direzione del passaggio a livello, ora allontanandosene.

A tratti si accosciava sulle traverse  e  frugava  con le narici  pieghe d’aria rarefatta e incandescente attraversata dall’ odore succoso dei frutti che gli cingeva i fianchi e da   quello viscido del catrame che gli si scioglieva sulle zampe.

Fiutava  il sospetto  degli insetti sciamanti e l’afrore degli esseri umani che talora si trovavano anch’essi a percorrere il suo stesso tragitto in compagnia di qualche arnese da lavoro.

Fiutava a lungo e con calma, profondamente. L’odore degli essere umani doveva essere più   complicato da decifrare di quello del grano o di una lucertola. A volte può essere  buono e avvolgente come una salsiccia appena arrostita, altre volte  insidioso come quello della corrente d’un canalone in piena.

Il cane approfittava delle sue soste anche  per ripulire l’aria di quel po’ po’ di mosche e calabroni che si davano  appuntamento intorno al suo naso e deglutiva spesso soddisfatto. Non sempre gli riusciva di  consumare un pasto decente. Lucertole e mosche per giorni e giorni,  su quel binario non v’era altro per chilometri e chilometri. Qualcosa arrivava anche dai finestrini dei treni di tanto in tanto, ma difficilmente si trattava di roba commestibile, bottiglie che si frantumavano in mille cocci, lattine roventi, bicchieri di plastica, mucchi di carta unta e maleodorante persino per il suo naso.
Nonostante tutto l’azzurro in possesso di quel dove, il tempo d’Irascal ebbe giorni neri che non si lasciavano tingere in nessun altro colore.

Ognuno aveva i suoi, Barone quelli dell’attesa che i suoi padroni arrivassero ad aprire la casa per le vacanze estive, i contadini quelli dei raccolti magri,   mia madre quelli del richiamo del mare, del fiume, del buio e noi ragazzi quelli delle insofferenze, delle irrequietezze, spesso della fretta di toglierci di dosso tutto quell’azzurro che pioveva e pioveva ma  a volte non era in grado di bagnarci come avrebbe dovuto, come avremmo voluto.

Quel giorno che decisi di andare via non pensai agli altri. Non avevo pensato neanche a me, ma solo ad andare via da tutto quell’azzurro bugiardo che era il tempo d’irascal.

Scelsi la via del treno come Barone. Lui più avanti io qualche passo indietro, lui al centro del binario io di fianco  lungo la scarpata, entrambi via dalle palette bianche e rosse del passaggio a livello in direzione dei  due puntini neri dell’orizzonte schizzato di colore.

Dove stava andando il cane? A che cosa stava pensando?

Come fa l’uomo a sapere cosa c’è dentro la testa di un cane se a volte non sa nemmeno cosa c’è dentro la sua stessa testa?

I grilli che cantavano a perdifiato non stavano pensando a nulla.

D’un tratto la campagna aveva smesso di cantare. I limoni tremarono,  i grilli si acquattarono nelle fessure, il sole si rannicchiò dietro una nuvola e il fischio del treno lacerò l’aria.


Il convoglio divorò con la furia di una valanga metri e metri di rotaie, spostò un’enorme massa d’aria che mi schiacciò  sul fondo della scarpata e s’avventò sul cane, che ancora camminava indolente e assorto al centro del binario.


Avevo riaperto  gli occhi sui respingenti dell’ultimo vagone che parve sghignazzare alle rotaie prima di divenire un segmento, un punto, un nulla contro l’azzurro.
Barone se ne stava  disteso immobile al centro del binario. Avrei voluto urlare ma non mi riusciva. Gli occhi non si staccavano dalla macchia gialla che aderiva alle pietre come una pelle vuota.


Tutto era accaduto nel giro di pochi istanti, pietrificando ogni cosa.


Il treno ululò ancora una volta dopo che era divenuto un nulla e il mondo riprese vita: i grilli uscirono dalle fessure riprendendo a cantare, il sole si scrollò di dosso la sua nuvola, le formiche ripresero a camminare sulla mia gonna a fiori e Barone si ricompose sulle traverse nella forma di un cane.

Si stiracchiò sulle zampe davanti, poi su quelle dietro, scrollò la testa come a scacciarne via il terribile tuono che v’era appena entrato dentro e l’aria luccicò di pelo giallo come vi fosse esploso in mezzo un grumo d’oro. Infine saltò fuori dalle rotaie, atterrando sullo stesso fondo della scarpata in cui procedevo anch’io, si volse un istante a fissarmi negli occhi e a me era parso che  dicesse: “Non poteva finire così presto, c’è ancora tanta di quella strada da fare!”.


Le palette bianche e rosse del passaggio a livello già lontano erano di nuovo stagliate tra il verde e l’azzurro, in piedi.


In piedi come i giorni dei ragazzi d’Irascal. comunque andassero i giorni.

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