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A Luigi- silloge breve

   A Luigi   Centoventitre Davanti la finestra del centoventitre c’era la strada dove ogni sera l’aspettava il suo giovane amore die...

martedì 19 maggio 2020

Compagni di viaggio particolari






Non era molto che avevo la patente. Sono sempre stata di quelli che viaggiano volentieri dappertutto purché a portarmi sia qualcun altro. Poi tutte quelle attività di cui sembrava che i figli degli anni settanta non potessero più fare a meno mi avevano convinto a fare il grande passo. Judo, ginnastica artistica, borse, borsoni e feste di compleanno! O assumevo un autista o mi aggregavo alla schiera delle patentate per scorrazzarli dove li portava l’improrogabile impegno quotidiano. M’ero iscritta all’autoscuola sottocasa e al primo colpo avevo fatto centro. Nemmeno ci credevo. Misi un cartello con su scritto Attenzione Neopatentata quando ancora non c’erano i cartelli prestampati con la P maiuscola e cominciai la lotta col volante dentro il perimetro delle mura della città. 
Dovetti aspettare il giorno in cui la mia amica Giulia finì in ospedale per fare il salto di qualità della guida fuori porta. Ci avevo pensato a lungo, la clinica distava dalla città almeno cinque chilometri e mio marito, il mio autista preferito e anche unico, un po’ di più. Alla fine mi ero organizzata, una vicina avrebbe preso i miei figli a scuola e io avrei tentato di prendere il diploma di secondo grado della guida percorrendo la giungla di una statale. 
Quando avevo parcheggiato nel viale dell’ospedale dov’era stata ricoverata Giulia ormai mi sentivo Nuvolari. mi ero complimentata con me stessa per il coraggio avuto arrivando sin lì e mi vedevo spalancate le porte di tutte le città del mondo. 
Non ricordo a che ora m’ero decisa a venir via dall’ospedale, per la prima volta in vita mia non avevo avuto bisogno di controllare l’orario di partenza di nessun mezzo pubblico e la cosa mi aveva dato un inebriante senso di libertà. Ricordo però la sorpresa che mi aspettava davanti l’ingresso della vetusta costruzione in cui Giulia avrebbe passato la notte, l'impatto con un gigantesco, impenetrabile muro di nebbia. Non la nebbia sì e no degli anni novanta, e nemmeno quella tosta degli anni ottanta, ma l’altra, quella cemento armato degli anni settanta. 
Il primo impulso era stato quello di risalire nella stanza di Giulia e chiedere all’infermiera di turno se potevo trattenermi lì per la notte. Ma poi, vuoi per orgoglio, vuoi per emulazione di quanti in quel momento stavano rimettendo in moto le loro vetture, mi ero decisa a ripartire anch’io, rammaricandomi di non conoscere il nome del Santo protettore degli automobilisti nella nebbia. 
Guidavo piano attenta ai cartelli segnaletici e alle insegne dei locali pubblici per non perdermi. Avevo anche tentato più volte di accodarmi ai fari di qualche rara auto che mi precedeva, ma mi avevano seminato tutti, incuranti del cartello di Neopatentata appiccicato sul vetro posteriore. Forse non lo vedevano, forse già allora la gente stava cominciando a diventare insensibile al grido di aiuto di chi si trova in momentanea difficoltà sulle strade. 
Con mio marito accanto, trovare la strada di casa sarebbe stato più semplice. D’un tratto avrebbe dichiarato a naso che eravamo “in zona”, sarebbe sceso dall’auto e insieme ci saremmo fatti largo nel nebbione come personaggi di una parata, lui davanti a piedi, sotto lo stendardo sbiadito degli antinebbia, io dietro, a reggere il motore a dieci all’ora per non farlo spegnere. Invece ero sola e, non essendo dotata del suo fiuto, per imboccare la strada di casa dovevo fare affidamento solo sui miei occhi che dopo dieci minuti di guida erano divenuti tutt’uno col parabrezza. 
Maledivo il momento in cui m’ero decisa ad andare. Ero caduta nel tranello di un pomeriggio d’inverno tiepido e assolato come una sprovveduta e non smettevo di darmi dell’idiota. E sì che ormai quelle trappole padane avrei dovuto saperle riconoscere. Se non fossi stata così angosciata nel cercare la linea bianca al centro della carreggiata mi sarei messa a ridere della goffaggine di quell’avventura iniziata come una farfalla nel sole e conclusa come un bruco intrappolato in un bozzolo di besciamelle. Anche la mia amica Giulia, però, rompersi il piede proprio quel giorno! 
Intanto che guidavo con la testa incollata al parabrezza nel tentativo di capire dov’ero, me la prendevo mentalmente con lei. Una che non sa neanche salire su una scala senza rompersi un piede, mi dicevo, dovrebbe essere esonerata a vita dalle pulizie domestiche, obbligata all’inerzia totale, depennata dalla lista delle amiche da andare a trovare quando per sospensione volontaria della condanna all’ozio forzato si fratturano qualche osso. Avrei preferito lavarle anche i muri di fuori in un giorno di sole piuttosto che farmi quei cinque chilometri di guida alla cieca col rischio di scivolare nel canale o di ritrovarmi contromano sulla corsia a fianco. 
Non avendo nulla con cui distrarmi cominciai ad ascoltare le voci di dentro. Può capitare di peggio in una sera così, avevano iniziato a dire. Erano più che altro sussurri, ma bastarono perché lunghi rivoli di sudore cominciassero a scivolarmi addosso dappertutto, dalla fronte al mento, dal collo alla schiena e anche più giù fin dentro i collant, mentre un suono di percussioni, più potente del più potente sintetizzatore di uno studio di registrazione, mi scuoteva il petto fino a farlo quasi scoppiare. 
Rallentai ancora quel tanto che era possibile finché il motore non emise quel particolare borbottio con cui ci fa capire che meno di così si spegne e proseguii a passo d’uomo. Ero ancora sulla strada o ero finita in un mondo parallelo? Ti sei persa, diceva la voce di dentro, persa in un mare di latte in cui affogherai e non tornerai più a galla. Nell’auto non c’era più aria nemmeno per vomitare. 
D’un tratto si udì un rumore. Qualcosa aveva urtato la portiera. Il suono non aveva ancora compiuto il giro completo di tutti i neuroni, che già il piede aveva premuto sull’acceleratore quel tanto che era bastato a fare schizzare la macchina come una mosca che sfugge all’orlo dell’asciugamano che la vuole schiacciare. Con la lucidità che il cervello appronta in tutte le situazioni di pericolo, intanto, facevo il punto della situazione, qualcuno aveva cercato di entrare nell’auto, e cominciavo a enumerare una serie di possibili cose sensate da fare, cercare un telefono, cercare qualcuno, cercare qualcosa o mettermi a urlare. Se avessi trovato la voce, e se avessi avuto anche una vaga speranza che qualcuno potesse sentirmi, avrei improvvisato l’espressione del famoso quadro di Munch privandomi da sola di quel residuo di forze che mi serviva per fronteggiare la situazione. Invece per istinto ero riuscita a controllarmi e ad affidarmi alla potenza del mezzo che ormai si guidava da solo e che da solo trovò poco dopo una soluzione, inchiodandosi sull’asfalto come una freccetta sul segnapunti. Dopodichè attese che un essere senziente gli desse istruzioni. 
Passarono diversi minuti prima che mi rendessi conto che l’unico essere senziente nei paraggi ero io. Ricorda gli esercizi, mi dissi, inspira espira, rilassati, concentrati sul tuo respiro. Avrei dovuto ricordarmi di dire a mio marito che non erano stati soldi buttati quelli del corso di Yoga. Comunque lui non c’era, non c’era neanche un cane lì intorno. 
Era bastata la parola cane perché un nuovo tarlo cominciasse a perforarmi il cervello, dovevo aver investito un animale, ecco la spiegazione del rumore. L’idea di un batuffolo di pelo insanguinato sulla strada mi fece stringere il cuore. Dovevo assolutamente fare un’inversione e raggiungere il posto del presunto incidente. Mi tornò in mente l’istruttore di guida quando mi aveva insegnato la manovra, però, mi raccomando, aveva concluso, eviti sempre di farla. Ma allora cosa me l’aveva insegnata a fare? Quella sera sarebbe stata l’occasione giusta per sapere se avevo imparato, mi ero detta. Giusta? mi aveva apostrofato la solita voce da dentro. Con quella colata di vernice fresca sui vetri volevo veder lui a controllare la “presenza della linea interrotta al centro della strada e il transito di veicoli in tutte le direzioni.” . Rinunciai e ripresi ad ascoltare le voci di dentro con la speranza che mi suggerissero qualcosa di meglio da fare. 
Non si erano fatte pregare. Magari non c’è stato nessun incidente, iniziarono a dire in coro, e poi non è detto che si sia trattato di un cane. Cominciavo a star meglio. E chi ti dice che non hai investito invece una persona? avevano insinuato a un tratto. 
Ci sono momenti in cui ognuno capisce da sé che è meglio star zitti. Le voci di dentro non hanno mai la stessa discrezione. 
L’idea di avere investito una persona ed essere scappata come una criminale era una mostruosità. Dovevo raggiungere la più vicina cabina telefonica e chiamare soccorso. Di cellulari, allora, non sapeva nulla nemmeno chi poi li ha inventati. 
Giulia, sapesse come l’ho invidiata quella sera! Mi vedevo la scena, lei nel letto caldo dell’ospedale serena e ignara davanti alla sua tazza di camomilla slavata, il gesso bianco che le avvolgeva il piede dotato della mia firma indelebile, la paziente del letto a fianco che la consolava malcelando l’irritazione di sentirla lamentare e l’infermiere del turno di notte spazientito delle sue continue chiamate e con un fisico niente male. Tutte le fortune quella donna! Io invece per colpa sua mi ritrovavo sola su una strada deserta in cui non si vedeva a un palmo dal naso, non passava un’anima, non c’era un’insegna, un telefono, un niente di niente, inchiodata per sempre dal rimorso di avere investito qualcuno ed essermela data a gambe. Sarei pure finita in prigione per questo e tutto solo perché lei non era stata capace di andare su una scala senza farsi male. 
Proprio sola comunque non ero. Con tutte quelle voci di dentro che non stavano un attimo zitte mi sembrava di essere attorniata da una schiera di compagni di viaggio, magari un po' particolari, ma che tuttavia mi tenevano sveglia. Uno di loro mi aveva pure fatto notare che tutto quel tergiversare sull'inversione di marcia e quell'elucubrazione sulla mia amica Giulia non erano altro che vigliacchi tentativi per prendere tempo e non affrontare le mie responsabilità. Mi suggerì di andare a piedi, meglio se munita di una torcia e di un plaid, aveva raccomandato. 
Inutile dire che non trovai né il plaid né la torcia. Quelli come me e mio marito non tengono nell’auto cose che all’occorrenza possono servire per il semplice fatto che sono delle persone ottimiste, quelli che dicono Perché ti deve proprio capitare qualcosa? Così quando scesi dall’auto avevo con me solo l’ottimismo, o quel che ne restava, e come unica precauzione scelsi di non scendere dalla parte della guida, nell’eventualità che l’unica macchina in transito decidesse di passare proprio mentre aprivo lo sportello. Scesi dal lato del passeggero, che era quello che dava sul ciglio della strada da dove ero certa che non poteva transitare alcun veicolo e atterrai direttamente sul fondo del canale. 
Non ho idea di come sia riuscita a rientrare in macchina, ma ricordo che dopo richiusi con diligenza lo sportello e iniziai il conto dei danni. Dagli stivali mancava un tacco, il collant era strappato sulle ginocchia, la manica del cappotto squarciata e della messa in piega del mattino non c’era più traccia. Chissà perché in certi momenti si fanno dei conti così stupidi. La mente ha i suoi misteri. 
Non mi restava che abbracciare il volante e attendere in compagnia delle solite voci di dentro. Ormai non sapevano far altro che domande. Com’è che da quella strada non passava nessuno?Dov’ero finita?E mio marito com’è che non aveva denunciato la mia scomparsa? Ero in gran ritardo e avrebbe dovuto cominciare a preoccuparsi. Aspettavo di sentire da un momento all’altro le sirene di qualche pattuglia della volante che veniva a cercarmi o l’elica di un elicottero uscito in perlustrazione per me. Io da lì non potevo più muovermi con i miei mezzi. La macchina era in bilico sul canale e le mie gambe peste non mi reggevano più. 
M’era persino passato di mente il cane e tutto il resto. Ma quando si sta dentro una macchina sospesa su un fosso in mezzo a una nebbia da tagliare con l’accetta il pensiero va per conto suo. E tornò al cane che pensavo di avere investito. Se almeno fossi riuscita a raggiungerlo, ci saremmo fatti compagnia. O forse quel cane era solo nella mia fantasia, avevo cercato di convincermi, e sulla strada dietro di me non avevo investito nessuno. Forse s’era trattato solo di un ramo secco sporgente sulla carreggiata, forse il rumore che m’era parso di sentire era quello delle mie stesse orecchie imbottite di nebbia e di paura. E se invece fosse stato reale? ipotizzavano di nuovo le voci interiori. Che cosa l’aveva procurato? In una sera di nebbia tutto può essere, avevano ricominciato a dire. Può essere che passino cani e gatti, che ci siano rami che sporgono sulla strada, o che ci sia qualche svitato che cammina nella nebbia aspettando che qualche lumaca motorizzata gli passi accanto per rubarle l’auto o per chissà che altro. E se di questo s’era trattato, cioè di un malintenzionato in cerca di polli da spennare, ormai doveva essere molto vicino. 
Senza ragionare più del tutto riavviai il motore che con un sobbalzo riuscì a mandare metà dell’auto dentro il fosso prima di spegnersi con un singhiozzo. Ero definitivamente perduta. Il ladro non poteva nemmeno rubarmi l’auto e me l’avrebbe fatta pagare in qualche altro modo. Non mi restava che saltare giù e darmela a gambe prima che mi raggiungesse. Non feci in tempo a scendere. Nel silenzio di quell’ovatta di nebbia che impastava ogni cosa, ecco il rumore di prima. L’uomo era lì. 
Non lo vedevo. E non era più solo questione di nebbia. E’ che la paura non mi permetteva nemmeno di aprire gli occhi. Mi si erano serrati nel momento in cui avevo sentito il primo raspo sulla lamiera e non riuscivo più ad aprirli. Sentivo il suo respiro affannoso sulla carrozzeria e avrei voluto vomitare ma ero paralizzata fin nelle viscere. La sicura delle portiere non avrebbe potuto proteggermi a lungo. Questione di minuti, avrebbe infranto il finestrino e per me non ci sarebbe stato più scampo. 
Ebbi allora un imprevisto scatto d’orgoglio. Se dovevo morire volevo almeno guardare in faccia il mio assassino. Con le forze che mi restavano brancolai sul fondo dell’auto in cerca di qualcosa per difendermi. Non trovai che la mia borsa, pesante come una valigia ma pur sempre soltanto una borsa da donna. L’avrei centrato in mezzo alla fronte sperando di non accecarlo, o forse sì. Non so più. Avevo fatto un ultimo respiro profondo prima di aprire gli occhi e guardare. Era lì, aderiva al finestrino con tutto se stesso, lo sguardo spiritato, la bocca spalancata in un urlo agghiacciante, l’aspetto di un pazzo. 
Con un che di familiare, mi avevano suggerito le voci di dentro. E infatti a guardare meglio dovetti dar loro ragione. Era proprio lui, il mio caro adorabile insostituibile marito. 
Ci volle un po’ prima che riuscisse a tirarmi fuori dalla macchina. L’auto era a mezz’aria sul canale e nella discesa gli precipitai addosso, fratturandogli un piede. Si vede che era il giorno dei piedi rotti, gli dissi per darmi un contegno. 
Volle sapere lo stesso perché, prima, invece di fermarmi e svoltare nel viale di casa, ero scappata a tavoletta verso la campagna. Prima quando? 
-Come quando? Ero lì quasi in mezzo alla strada che per poco non mi mettevi sotto…Mi sono sbracciato come un vigile nelle ore di punta, ho pure picchiato un paio di volte sul finestrino… Volevo aiutarti a entrare nel viale di casa e tu invece di svoltare sei fuggita come se avessi visto un fantasma. Possibile che non hai nemmeno sentito?-mi chiese lui con tono irritato. 
- Con la confusione che c’era qui dentro?- gli chiesi ancora imbambolata da tutto il trambusto. 
- Ma se non c'è nessuno...- disse lui 
-Secondo te...- avevo tentato di spiegargli- Non si vedono, ma si fanno sentire... Altroché se si fanno sentire!- 
E lui aveva rinunciato a capire.




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