Non era molto che avevo la patente. Sono sempre stata di
quelli che viaggiano volentieri dappertutto purché a portarmi sia qualcun
altro. Poi tutte quelle attività di cui sembrava che i figli degli anni
settanta non potessero più fare a meno mi avevano convinto a fare il grande
passo. Judo, ginnastica artistica, borse, borsoni e feste di compleanno! O
assumevo un autista o mi aggregavo alla schiera delle patentate per scorrazzarli
dove li portava l’improrogabile impegno quotidiano. M’ero iscritta
all’autoscuola sottocasa e al primo colpo avevo fatto centro. Nemmeno ci
credevo. Misi un cartello con su scritto Attenzione Neopatentata quando ancora
non c’erano i cartelli prestampati con la
P maiuscola e cominciai la lotta col volante dentro il
perimetro delle mura della città.
Dovetti aspettare il giorno in cui la mia amica Giulia finì in ospedale per
fare il salto di qualità della guida fuori porta. Ci avevo pensato a lungo, la clinica
distava dalla città almeno cinque chilometri e mio marito, il mio autista
preferito e anche unico, un po’ di più. Alla fine mi ero organizzata, una
vicina avrebbe preso i miei figli a scuola e io avrei tentato di prendere il
diploma di secondo grado della guida percorrendo la giungla di una statale.
Quando avevo parcheggiato nel viale dell’ospedale dov’era stata ricoverata
Giulia ormai mi sentivo Nuvolari. mi ero complimentata con me stessa per il
coraggio avuto arrivando sin lì e mi vedevo spalancate le porte di tutte le
città del mondo.
Non ricordo a che ora m’ero decisa a venir via dall’ospedale, per la prima
volta in vita mia non avevo avuto bisogno di controllare l’orario di partenza
di nessun mezzo pubblico e la cosa mi aveva dato un inebriante senso di
libertà. Ricordo però la sorpresa che mi aspettava davanti l’ingresso della
vetusta costruzione in cui Giulia avrebbe passato la notte, l'impatto con un
gigantesco, impenetrabile muro di nebbia. Non la nebbia sì e no degli anni
novanta, e nemmeno quella tosta degli anni ottanta, ma l’altra, quella cemento
armato degli anni settanta.
Il primo impulso era stato quello di risalire nella stanza di Giulia e chiedere
all’infermiera di turno se potevo trattenermi lì per la notte. Ma poi, vuoi per
orgoglio, vuoi per emulazione di quanti in quel momento stavano rimettendo in
moto le loro vetture, mi ero decisa a ripartire anch’io, rammaricandomi di non
conoscere il nome del Santo protettore degli automobilisti nella nebbia.
Guidavo piano attenta ai cartelli segnaletici e alle insegne dei locali
pubblici per non perdermi. Avevo anche tentato più volte di accodarmi ai fari
di qualche rara auto che mi precedeva, ma mi avevano seminato tutti, incuranti
del cartello di Neopatentata appiccicato sul vetro posteriore. Forse non lo
vedevano, forse già allora la gente stava cominciando a diventare insensibile
al grido di aiuto di chi si trova in momentanea difficoltà sulle strade.
Con mio marito accanto, trovare la strada di casa sarebbe stato più semplice.
D’un tratto avrebbe dichiarato a naso che eravamo “in zona”, sarebbe sceso
dall’auto e insieme ci saremmo fatti largo nel nebbione come personaggi di una
parata, lui davanti a piedi, sotto lo stendardo sbiadito degli antinebbia, io
dietro, a reggere il motore a dieci all’ora per non farlo spegnere. Invece ero
sola e, non essendo dotata del suo fiuto, per imboccare la strada di casa
dovevo fare affidamento solo sui miei occhi che dopo dieci minuti di guida
erano divenuti tutt’uno col parabrezza.
Maledivo il momento in cui m’ero decisa ad andare. Ero caduta nel tranello di
un pomeriggio d’inverno tiepido e assolato come una sprovveduta e non smettevo
di darmi dell’idiota. E sì che ormai quelle trappole padane avrei dovuto
saperle riconoscere. Se non fossi stata così angosciata nel cercare la linea
bianca al centro della carreggiata mi sarei messa a ridere della goffaggine di
quell’avventura iniziata come una farfalla nel sole e conclusa come un bruco
intrappolato in un bozzolo di besciamelle. Anche la mia amica Giulia, però,
rompersi il piede proprio quel giorno!
Intanto che guidavo con la testa incollata al parabrezza nel tentativo di
capire dov’ero, me la prendevo mentalmente con lei. Una che non sa neanche
salire su una scala senza rompersi un piede, mi dicevo, dovrebbe essere
esonerata a vita dalle pulizie domestiche, obbligata all’inerzia totale,
depennata dalla lista delle amiche da andare a trovare quando per sospensione
volontaria della condanna all’ozio forzato si fratturano qualche osso. Avrei
preferito lavarle anche i muri di fuori in un giorno di sole piuttosto che
farmi quei cinque chilometri di guida alla cieca col rischio di scivolare nel
canale o di ritrovarmi contromano sulla corsia a fianco.
Non avendo nulla con cui distrarmi cominciai ad ascoltare le voci di dentro.
Può capitare di peggio in una sera così, avevano iniziato a dire. Erano più che
altro sussurri, ma bastarono perché lunghi rivoli di sudore cominciassero a
scivolarmi addosso dappertutto, dalla fronte al mento, dal collo alla schiena e
anche più giù fin dentro i collant, mentre un suono di percussioni, più potente
del più potente sintetizzatore di uno studio di registrazione, mi scuoteva il
petto fino a farlo quasi scoppiare.
Rallentai ancora quel tanto che era possibile finché il motore non emise quel
particolare borbottio con cui ci fa capire che meno di così si spegne e
proseguii a passo d’uomo. Ero ancora sulla strada o ero finita in un mondo
parallelo? Ti sei persa, diceva la voce di dentro, persa in un mare di latte in
cui affogherai e non tornerai più a galla. Nell’auto non c’era più aria nemmeno
per vomitare.
D’un tratto si udì un rumore. Qualcosa aveva urtato la portiera. Il suono non
aveva ancora compiuto il giro completo di tutti i neuroni, che già il piede
aveva premuto sull’acceleratore quel tanto che era bastato a fare schizzare la
macchina come una mosca che sfugge all’orlo dell’asciugamano che la vuole
schiacciare. Con la lucidità che il cervello appronta in tutte le situazioni di
pericolo, intanto, facevo il punto della situazione, qualcuno aveva cercato di
entrare nell’auto, e cominciavo a enumerare una serie di possibili cose sensate
da fare, cercare un telefono, cercare qualcuno, cercare qualcosa o mettermi a
urlare. Se avessi trovato la voce, e se avessi avuto anche una vaga speranza
che qualcuno potesse sentirmi, avrei improvvisato l’espressione del famoso
quadro di Munch privandomi da sola di quel residuo di forze che mi serviva per
fronteggiare la situazione. Invece per istinto ero riuscita a controllarmi e ad
affidarmi alla potenza del mezzo che ormai si guidava da solo e che da solo
trovò poco dopo una soluzione, inchiodandosi sull’asfalto come una freccetta
sul segnapunti. Dopodichè attese che un essere senziente gli desse istruzioni.
Passarono diversi minuti prima che mi rendessi conto che l’unico essere
senziente nei paraggi ero io. Ricorda gli esercizi, mi dissi, inspira espira,
rilassati, concentrati sul tuo respiro. Avrei dovuto ricordarmi di dire a mio
marito che non erano stati soldi buttati quelli del corso di Yoga. Comunque lui
non c’era, non c’era neanche un cane lì intorno.
Era bastata la parola cane perché un nuovo tarlo cominciasse a perforarmi il
cervello, dovevo aver investito un animale, ecco la spiegazione del rumore.
L’idea di un batuffolo di pelo insanguinato sulla strada mi fece stringere il
cuore. Dovevo assolutamente fare un’inversione e raggiungere il posto del
presunto incidente. Mi tornò in mente l’istruttore di guida quando mi aveva
insegnato la manovra, però, mi raccomando, aveva concluso, eviti sempre di
farla. Ma allora cosa me l’aveva insegnata a fare? Quella sera sarebbe stata
l’occasione giusta per sapere se avevo imparato, mi ero detta. Giusta? mi aveva
apostrofato la solita voce da dentro. Con quella colata di vernice fresca sui
vetri volevo veder lui a controllare la “presenza della linea interrotta al
centro della strada e il transito di veicoli in tutte le direzioni.” .
Rinunciai e ripresi ad ascoltare le voci di dentro con la speranza che mi
suggerissero qualcosa di meglio da fare.
Non si erano fatte pregare. Magari non c’è stato nessun incidente, iniziarono a
dire in coro, e poi non è detto che si sia trattato di un cane. Cominciavo a
star meglio. E chi ti dice che non hai investito invece una persona? avevano
insinuato a un tratto.
Ci sono momenti in cui ognuno capisce da sé che è meglio star zitti. Le voci di
dentro non hanno mai la stessa discrezione.
L’idea di avere investito una persona ed essere scappata come una criminale era
una mostruosità. Dovevo raggiungere la più vicina cabina telefonica e chiamare
soccorso. Di cellulari, allora, non sapeva nulla nemmeno chi poi li ha
inventati.
Giulia, sapesse come l’ho invidiata quella sera! Mi vedevo la scena, lei nel
letto caldo dell’ospedale serena e ignara davanti alla sua tazza di camomilla
slavata, il gesso bianco che le avvolgeva il piede dotato della mia firma
indelebile, la paziente del letto a fianco che la consolava malcelando
l’irritazione di sentirla lamentare e l’infermiere del turno di notte
spazientito delle sue continue chiamate e con un fisico niente male. Tutte le
fortune quella donna! Io invece per colpa sua mi ritrovavo sola su una strada
deserta in cui non si vedeva a un palmo dal naso, non passava un’anima, non
c’era un’insegna, un telefono, un niente di niente, inchiodata per sempre dal
rimorso di avere investito qualcuno ed essermela data a gambe. Sarei pure
finita in prigione per questo e tutto solo perché lei non era stata capace di
andare su una scala senza farsi male.
Proprio sola comunque non ero. Con tutte quelle voci di dentro che non stavano
un attimo zitte mi sembrava di essere attorniata da una schiera di compagni di
viaggio, magari un po' particolari, ma che tuttavia mi tenevano sveglia. Uno di
loro mi aveva pure fatto notare che tutto quel tergiversare sull'inversione di
marcia e quell'elucubrazione sulla mia amica Giulia non erano altro che
vigliacchi tentativi per prendere tempo e non affrontare le mie responsabilità.
Mi suggerì di andare a piedi, meglio se munita di una torcia e di un plaid, aveva
raccomandato.
Inutile dire che non trovai né il plaid né la torcia. Quelli come me e mio
marito non tengono nell’auto cose che all’occorrenza possono servire per il
semplice fatto che sono delle persone ottimiste, quelli che dicono Perché ti
deve proprio capitare qualcosa? Così quando scesi dall’auto avevo con me solo
l’ottimismo, o quel che ne restava, e come unica precauzione scelsi di non
scendere dalla parte della guida, nell’eventualità che l’unica macchina in
transito decidesse di passare proprio mentre aprivo lo sportello. Scesi dal
lato del passeggero, che era quello che dava sul ciglio della strada da dove
ero certa che non poteva transitare alcun veicolo e atterrai direttamente sul
fondo del canale.
Non ho idea di come sia riuscita a rientrare in macchina, ma ricordo che dopo
richiusi con diligenza lo sportello e iniziai il conto dei danni. Dagli stivali
mancava un tacco, il collant era strappato sulle ginocchia, la manica del
cappotto squarciata e della messa in piega del mattino non c’era più traccia.
Chissà perché in certi momenti si fanno dei conti così stupidi. La mente ha i
suoi misteri.
Non mi restava che abbracciare il volante e attendere in compagnia delle solite
voci di dentro. Ormai non sapevano far altro che domande. Com’è che da quella
strada non passava nessuno?Dov’ero finita?E mio marito com’è che non aveva
denunciato la mia scomparsa? Ero in gran ritardo e avrebbe dovuto cominciare a
preoccuparsi. Aspettavo di sentire da un momento all’altro le sirene di qualche
pattuglia della volante che veniva a cercarmi o l’elica di un elicottero uscito
in perlustrazione per me. Io da lì non potevo più muovermi con i miei mezzi. La
macchina era in bilico sul canale e le mie gambe peste non mi reggevano più.
M’era persino passato di mente il cane e tutto il resto. Ma quando si sta
dentro una macchina sospesa su un fosso in mezzo a una nebbia da tagliare con
l’accetta il pensiero va per conto suo. E tornò al cane che pensavo di avere
investito. Se almeno fossi riuscita a raggiungerlo, ci saremmo fatti compagnia.
O forse quel cane era solo nella mia fantasia, avevo cercato di convincermi, e
sulla strada dietro di me non avevo investito nessuno. Forse s’era trattato
solo di un ramo secco sporgente sulla carreggiata, forse il rumore che m’era
parso di sentire era quello delle mie stesse orecchie imbottite di nebbia e di
paura. E se invece fosse stato reale? ipotizzavano di nuovo le voci interiori.
Che cosa l’aveva procurato? In una sera di nebbia tutto può essere, avevano
ricominciato a dire. Può essere che passino cani e gatti, che ci siano rami che
sporgono sulla strada, o che ci sia qualche svitato che cammina nella nebbia
aspettando che qualche lumaca motorizzata gli passi accanto per rubarle l’auto
o per chissà che altro. E se di questo s’era trattato, cioè di un
malintenzionato in cerca di polli da spennare, ormai doveva essere molto
vicino.
Senza ragionare più del tutto riavviai il motore che con un sobbalzo riuscì a
mandare metà dell’auto dentro il fosso prima di spegnersi con un singhiozzo.
Ero definitivamente perduta. Il ladro non poteva nemmeno rubarmi l’auto e me
l’avrebbe fatta pagare in qualche altro modo. Non mi restava che saltare giù e
darmela a gambe prima che mi raggiungesse. Non feci in tempo a scendere. Nel
silenzio di quell’ovatta di nebbia che impastava ogni cosa, ecco il rumore di
prima. L’uomo era lì.
Non lo vedevo. E non era più solo questione di nebbia. E’ che la paura non mi
permetteva nemmeno di aprire gli occhi. Mi si erano serrati nel momento in cui
avevo sentito il primo raspo sulla lamiera e non riuscivo più ad aprirli.
Sentivo il suo respiro affannoso sulla carrozzeria e avrei voluto vomitare ma
ero paralizzata fin nelle viscere. La sicura delle portiere non avrebbe potuto
proteggermi a lungo. Questione di minuti, avrebbe infranto il finestrino e per
me non ci sarebbe stato più scampo.
Ebbi allora un imprevisto scatto d’orgoglio. Se dovevo morire volevo almeno
guardare in faccia il mio assassino. Con le forze che mi restavano brancolai
sul fondo dell’auto in cerca di qualcosa per difendermi. Non trovai che la mia
borsa, pesante come una valigia ma pur sempre soltanto una borsa da donna.
L’avrei centrato in mezzo alla fronte sperando di non accecarlo, o forse sì.
Non so più. Avevo fatto un ultimo respiro profondo prima di aprire gli occhi e
guardare. Era lì, aderiva al finestrino con tutto se stesso, lo sguardo
spiritato, la bocca spalancata in un urlo agghiacciante, l’aspetto di un pazzo.
Con un che di familiare, mi avevano suggerito le voci di dentro. E infatti a
guardare meglio dovetti dar loro ragione. Era proprio lui, il mio caro
adorabile insostituibile marito.
Ci volle un po’ prima che riuscisse a tirarmi fuori dalla macchina. L’auto era
a mezz’aria sul canale e nella discesa gli precipitai addosso, fratturandogli
un piede. Si vede che era il giorno dei piedi rotti, gli dissi per darmi un
contegno.
Volle sapere lo stesso perché, prima, invece di fermarmi e svoltare nel viale
di casa, ero scappata a tavoletta verso la campagna. Prima quando?
-Come quando? Ero lì quasi in mezzo alla strada che per poco non mi mettevi
sotto…Mi sono sbracciato come un vigile nelle ore di punta, ho pure picchiato
un paio di volte sul finestrino… Volevo aiutarti a entrare nel viale di casa e
tu invece di svoltare sei fuggita come se avessi visto un fantasma. Possibile
che non hai nemmeno sentito?-mi chiese lui con tono irritato.
- Con la confusione che c’era qui dentro?- gli chiesi ancora imbambolata da
tutto il trambusto.
- Ma se non c'è nessuno...- disse lui
-Secondo te...- avevo tentato di spiegargli- Non si vedono, ma si fanno
sentire... Altroché se si fanno sentire!-
E lui aveva rinunciato a capire.
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