Post in evidenza

A Luigi- silloge breve

   A Luigi   Centoventitre Davanti la finestra del centoventitre c’era la strada dove ogni sera l’aspettava il suo giovane amore die...

mercoledì 20 maggio 2020

Silenzi ( Momenti di me)





Te ne sei andato via da troppo tempo, e la matita della mia memoria non sa più disegnare i tratti del tuo viso, riesce solamente a tracciare la sagoma indistinta di abiti troppo larghi sul corpo troppo magro, e ancora sembra tu debba cader giù da quelle lunghe, inconsistenti gambe.
Ma quando vieni nei sogni, allora il volto tuo davanti al mio è nitidamente scolpito, coi lunghi solchi che percorrono le guance sprofondando sotto il cespuglio dei baffi neri come la notte, e gli occhi galleggianti dentro le bolle d’acqua di quella malattia per la quale quasi non vedevi più quando ci lasciasti. Sei lì, col tuo abito blu, sempre blu, e la camicia bianca, sempre bianca, sgualcito come loro sotto il berretto grigio, la coppola della tua, della mia terra.
Mi sono domandata perché ti abbia chiamato tante volte nelle mie fughe di sonno, o se invece non sia tu a volermi incontrare, per regalare un altro po’ di te alla figlia della tua figlia prediletta, la nipote che ti assomigliava di più, con la sua testa grande, il naso largo, la pelle colore delle olive della tua campagna... Cerco allora il primo ricordo di te, ma le immagini si accavallano senza un ordine temporale, sospinte da ventate di odori, sapori, colori  lontani e disordinati.
Ritrovo la tua mano che circonda la mia , in giro per le strade del paese, e dentro l’osteria dove ti fermi a bere un bicchiere di vino con gli amici, raccomandandomi di  non dirlo alla nonna. Lì, sulle tue ginocchia, sgranocchio caramelle di limone e gioco a scopa con voi, dentro l’odor di vino e il puzzo delle sigarette che arrotolo insieme a te.
Risento l’odore di quello  sgabuzzino della stazione, dove rimani a fare non so cosa  con pacchi, ceralacca, timbri e spaghi, ed io fuori la porta ad intrecciare aghi di pino in collane e corone che ti regalo cingendotene il collo e la testa, per farti diventare re.
E ancora con te volo fra i mandorli in fiore della tua Agrigento, in quelle primavere che si andava, noi due soli , sul treno sbuffante un fumo nero, che mi riempiva bocca e naso ed occhi mentre, affacciata al finestrino, le tue braccia intorno alla mia vita, accarezzavo campi senza erba e greggi senza pastori. E lì, in quel fazzoletto di terra che ti era rimasto, fra le mura cadenti di quella casa abbandonata ormai da tempo immemorabile, raccoglievamo more dai cespugli e frutti acerbi, tu forse un poco di memorie, che ancora io non sapevo.
Per tanto tempo ci sei stato tu. Dietro il portone dell’asilo e nelle feste in piazza, dove andavamo portandoci dietro le sedie, tu la tua, grande, io la mia, piccolina, per ascoltare la banda che suonava, gli uomini che parlavano da un palco, ed io mi addormentavo, la testa sulle tue ginocchia. E c’eri tu, ogni mattina, alla stazione ad aspettarmi per accompagnarmi a scuola, passando prima da casa tua per fare colazione con la frittata di uova appena raccolte dal pollaio e il gelato dentro il pane caldo.
Poi la nostra amicizia finì, e non per colpa tua. Vennero altri amici alla stazione ad aspettarmi, e la frittata, il pane caldo col gelato non mi piacquero più. Tu lo capisti quella volta che finsi di non vederti, lasciandoti solo alla stazione dov’eri venuto ad aspettarmi come sempre. E da quel giorno non sei più venuto. E nemmeno sentii più il tuo fischio chiamarmi sul portone della scuola, all’ora di uscita, né più mi portasti a volare fra i mandorli in fiore della tua Agrigento.
Sei rimasto ad aspettare che tra un giro con gli  amici ed una festa io entrassi ancora  un poco tra le mura di quella casa dalla quale ormai uscivi sempre più di rado. E sempre più di rado io vi entravo.
Quando mi dissero che te ne eri andato, ancora non capivo cosa volesse dire veramente morire. Sei stato il mio primo incontro con la morte,  aveva il tuo volto. Forse è anche per questo che torni così spesso nei miei sogni. Io apro la porta e tu sei lì, sgualcito dentro l’abito blu e la camicia bianca, sotto il berretto grigio  a dirmi che sei tornato, che non sei morto, che è stato tutto un terribile errore.
E nel sogno, l’unica cosa di te che non so se sia quella vera è la voce. Perché la tua voce, nonno, io non la ricordo. Parlavi così poco, eppure mi dicevi tante cose coi tuoi lunghi silenzi.
E ancora mi piace ascoltarli.

Nessun commento:

Posta un commento