Te
ne sei andato via da troppo tempo, e la matita della mia memoria non sa più
disegnare i tratti del tuo viso, riesce solamente a tracciare la sagoma
indistinta di abiti troppo larghi sul corpo troppo magro, e ancora sembra tu debba
cader giù da quelle lunghe, inconsistenti gambe.
Ma
quando vieni nei sogni, allora il volto tuo davanti al mio è nitidamente
scolpito, coi lunghi solchi che percorrono le guance sprofondando sotto il
cespuglio dei baffi neri come la notte, e gli occhi galleggianti dentro le
bolle d’acqua di quella malattia per la quale quasi non vedevi più quando ci
lasciasti. Sei lì, col tuo abito blu, sempre blu, e la camicia bianca, sempre
bianca, sgualcito come loro sotto il berretto grigio, la coppola della tua, della mia terra.
Mi
sono domandata perché ti abbia chiamato tante volte nelle mie fughe di sonno, o
se invece non sia tu a volermi incontrare, per regalare un altro po’ di te alla
figlia della tua figlia prediletta, la nipote che ti assomigliava di più, con
la sua testa grande, il naso largo, la pelle colore delle olive della tua
campagna... Cerco allora il primo ricordo di te, ma le immagini si accavallano
senza un ordine temporale, sospinte da ventate di odori, sapori, colori lontani e disordinati.
Ritrovo
la tua mano che circonda la mia , in giro per le strade del paese, e dentro
l’osteria dove ti fermi a bere un bicchiere di vino con gli amici,
raccomandandomi di non dirlo alla nonna.
Lì, sulle tue ginocchia, sgranocchio caramelle di limone e gioco a scopa con
voi, dentro l’odor di vino e il puzzo delle sigarette che arrotolo insieme a
te.
Risento
l’odore di quello sgabuzzino della
stazione, dove rimani a fare non so cosa
con pacchi, ceralacca, timbri e spaghi, ed io fuori la porta ad
intrecciare aghi di pino in collane e corone che ti regalo cingendotene il
collo e la testa, per farti diventare re.
E
ancora con te volo fra i mandorli in fiore della tua Agrigento, in quelle
primavere che si andava, noi due soli , sul treno sbuffante un fumo nero, che mi
riempiva bocca e naso ed occhi mentre, affacciata al finestrino, le tue braccia
intorno alla mia vita, accarezzavo campi senza erba e greggi senza pastori. E
lì, in quel fazzoletto di terra che ti era rimasto, fra le mura cadenti di
quella casa abbandonata ormai da tempo immemorabile, raccoglievamo more dai
cespugli e frutti acerbi, tu forse un poco di memorie, che ancora io non
sapevo.
Per
tanto tempo ci sei stato tu. Dietro il portone dell’asilo e nelle feste in
piazza, dove andavamo portandoci dietro le sedie, tu la tua, grande, io la mia,
piccolina, per ascoltare la banda che suonava, gli uomini che parlavano da un
palco, ed io mi addormentavo, la testa sulle tue ginocchia. E c’eri tu, ogni
mattina, alla stazione ad aspettarmi per accompagnarmi a scuola, passando prima
da casa tua per fare colazione con la frittata di uova appena raccolte dal
pollaio e il gelato dentro il pane caldo.
Poi
la nostra amicizia finì, e non per colpa tua. Vennero altri amici alla stazione
ad aspettarmi, e la frittata, il pane caldo col gelato non mi piacquero più. Tu
lo capisti quella volta che finsi di non vederti, lasciandoti solo alla
stazione dov’eri venuto ad aspettarmi come sempre. E da quel giorno non sei più
venuto. E nemmeno sentii più il tuo fischio chiamarmi sul portone della scuola,
all’ora di uscita, né più mi portasti a volare fra i mandorli in fiore della
tua Agrigento.
Sei
rimasto ad aspettare che tra un giro con gli
amici ed una festa io entrassi ancora
un poco tra le mura di quella casa dalla quale ormai uscivi sempre più
di rado. E sempre più di rado io vi entravo.
Quando
mi dissero che te ne eri andato, ancora non capivo cosa volesse dire veramente
morire. Sei stato il mio primo incontro con la morte, aveva il tuo volto. Forse è anche per questo
che torni così spesso nei miei sogni. Io apro la porta e tu sei lì, sgualcito
dentro l’abito blu e la camicia bianca, sotto il berretto grigio a dirmi che sei tornato, che non sei morto,
che è stato tutto un terribile errore.
E
nel sogno, l’unica cosa di te che non so se sia quella vera è la voce. Perché
la tua voce, nonno, io non la ricordo. Parlavi così poco, eppure mi dicevi
tante cose coi tuoi lunghi silenzi.
E
ancora mi piace ascoltarli.
Nessun commento:
Posta un commento